PTU, 9-14 settembre 2013. Non è quella cosa più che un’allucinazione. Il fantasma ha preso voce e corpo dal testo, è apparso sulla piattaforma del palco nella carne viva del gruppo, mescolato con l’elemento re-attivo Fortunato Cerlino, attraverso la formula alchemica di Shakespeare. Spavento e stupore nell’incontrare Amleto, motivo di tante guerre nei propri io. Perché sempre la frode severissima ogni attimo affatica il suddito di questo corpo che consuma la vita a reagire e non ad agire. Che rappresenta la volontà, ma non vuole, sa ma non sente. Non serve recitare l’Amleto, se non si agisce da Amleto, assumendo la maschera interna del personaggio, dei personaggi, svuotando del privato ogni gesto personale. Timidezza o viltà infettano la bellezza di meretrice onestà? Non c’è tempo. Questo giardino abbandonato va in seme, comunque. La natura fetida e volgare regna , la gramigna infesta rosmarino e viole, il sole nutre di secco la linfa. Fragilità la tua cura è la serendipità. E l’attore dà, si svuota delle opinioni l’animus ed evapora gli umori dell’anima; se non torna a casa vuoto, ha solo rappresentato l’abito di sé stesso, e non presentato i suoi scheletri al pubblico. A tratti -evanescenti, labili ed incostanti- risvegliarsi nel sogno, per tentare di domandarsi alla risposta.
Non sarà questo fiume d’inchiostro virtuale a mostrare la verità. Queste cose davvero sembrano perché la scrittura può fingere. Ma la prospettiva del laboratorio è qualcosa che non si può mostrare, i mostri e i fantasmi che l’Amleto può generare. Perseverare in una sintesi dialettica è condursi con testardaggine, per de-scrivere la più ordinaria esperienza dei sensi: un luogo, una settimana, un gruppo di corpi che intereagiscono tra loro, carta e inchiostro.